Ciclismo, oggi la Parigi-Roubaix. Moser: «Ora in gruppo non potrei mai correre. La chicane? Una fesseria»

Oggi la corsa delle pietre che il campione trentino conquistò tre volte

Ciclismo, oggi la Parigi-Roubaix. Moser: «Ora in gruppo non potrei mai correre. La chicane? Una fesseria»

di Pietro Cabras

«Ne avrei potute vincere altre due, almeno», ragiona Francesco Moser, 73 anni a giugno, mentre scruta il cielo tra le sue montagne del Trentino. «Appena torna un po’ di bel tempo riprendo la bici. Ma non tanto, mi concedo un paio d’ore al giorno. E rigorosamente con la bici elettrica, quando superi i settant’anni non si scherza mica».

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È stata la sua corsa, la Parigi-Roubaix, e sì che di vittorie Francesco Moser ne ha messe in fila 273, in una carriera ricchissima. Dodici anni dopo Gimondi arrivò da solo al velodromo di Roubaix nel 1978, splendente nella maglia di campione del mondo - appena ombrata dal fango - conquistata l’anno prima in Venezuela. E arrivò solo anche nel 1979, e ancora nel 1980, un tris di vittorie solitarie mai riuscito ad alcuno. Rischiò di prendersi anche la quarta, in volata, se solo davanti a lui e De Vlaeminck – i soliti noti – non si fosse materializzato Bernard Hinault, che vinse e sentenziò: «Qui mai più, non è una corsa».

Il rito di quello che chiamarono l’Inferno del Nord si rinnova domenica nella Francia delle vecchie miniere di carbone, delle stradine sconnesse diventate patrimonio nazionale, un bene da difendere perché qui si celebra il mito e il mito non può scomparire sotto l’asfalto. «Parlavano tutti di questa Roubaix e mi dissi: e allora andiamo. E la prima rischiai pure di vincerla», era il 1974, non aveva ancora 23 anni, e se non gli fosse partita una ruota in curva nel finale magari avrebbe potuto lottare per il successo, Moser secondo al debutto. «Lì capii che si poteva fare. Non la conoscevo prima. Mio fratello Aldo non l’aveva mai corsa. Andammo a provare il percorso in auto il giorno prima, con i miei ds, Bartolozzi e Vannucci». Si parlò di una serie di appunti, in cui annotavano i settori di pavé, le difficoltà, le soluzioni. «Mah, solo pedalandoci sopra, con i chilometri, imparai ad affrontarla». La sua ricetta è facile, se ti chiami Moser e sei nel pieno di una carriera fantastica: «C’è poco fare: devi star bene, andare forte e cercare di rimanere davanti. Quando piove, pedali al centro della gobba d’asino che è la strada, perché ai lati c’è l’acqua e non sai che cosa troveresti sotto; quando è asciutto, pedali invece ai bordi, nel sentierini laterali. E cerchi di rimanere in piedi, soprattutto». Poi c’è l’abilità decisiva di prendere davanti i settori di pavé, per non rischiare di rimanere attardati: è stata introdotta una chicane all’imbocco della Foresta di Arenberg per evitare che il gruppo vi arrivi compatto a cinquanta orari, a tre giorni dalla terribile caduta al Giro dei Paesi Baschi: «Mi sembra una stupidaggine.

Vorrà dire che cadi prima e non dopo... La verità è che è tutto estremo, eccessivo, anche se nel ciclismo si cade da sempre». E spiega quegli attimi: «La lotta comincia anche dieci chilometri prima, per prendere il pavé tra i primi. A volte avevo un compagno che mi aiutava, altre volte facevo da me, mi arrangiavo. Era una battaglia». Corse la Roubaix fino all’edizione del 1987, a quasi 36 anni, «e se non avessi attaccato presto magari, anche quella...»: più che rimpianto è divertimento a ricordare gli anni della gioventù. «La prima rimane quella a cui sono più affezionato, con la maglia iridata, ma altre due le avrei potute vincere». Non c’erano le diavolerie tecnologiche di adesso, «solo pochi accorgimenti, bici più o meno uguali per tutti, io avevo una Benotto. Ruote solo più robuste, sellino imbottito, e così il manubrio, ma niente altro. Se facevamo delle prove anche in Italia? Ma no, da noi non c’è il pavé, solo qualche tratto più piccolo e regolare, non vale la pena». Non ha mai avuto paura di faticare, questione di famiglia, ciclisti e agricoltori, passione e sudore, vino buono e successi. «Quando uscivo di casa, per gli allenamenti, potevo andare solo in discesa, in su non c’era più la strada. Che voleva dire trovare la salita al rientro, quando ero più stanco». Una piacevole condanna se nasci a Palù di Giovo, solo attenuata adesso che «abito al maso, c’è salita ma non come quella di allora».

L’uomo delle montagne filava divinamente sulla pianura annerita dove in quegli anni dettava legge Roger De Vlaeminck detto il Gitano, quattro vittorie che gli valsero il nomignolo di Monsieur Roubaix. Nel 1978 furono anche compagni di squadra. «Lo volle Sanson, il mio patron, Roger non aveva un team e venne nel mio. Ma non c’era verso di andare d’accordo. Non ascoltava, non amava le gerarchie. Non ci parlavamo, quasi». Quel giorno Moser attaccò per primo e fece il vuoto, e Roger non poté inseguirlo, anche se la leggenda vuole che abbia provato a convincere Freddy Maertens a riportarlo sotto. Non conferma, Moser: «Non so, sono solo voci. L’ho rivisto anche di recente, Roger: si lamenta ancora, non gli piace il ciclismo di oggi». E a lei piace? «Di sicuro non mi troverei bene in questo sistema. E non dico altro». Cioé? «Mah, adesso comandano i direttori sportivi. Ai miei tempi comandavamo noi corridori...». Allora avevano ragione a chiamarla lo Sceriffo. «Ah ah... furono Magrini e Rosola a tirar fuori quel soprannome». Ma ci sarà qualcuno che le piace? «Van der Poel sembra il più forte nelle corse di un giorno, Pogacar nelle gare a tappe. Poi ci sono Evenepoel, Roglic, Van Aert che cercano di inserirsi». Dai suoi anni, l’Italia ha vinto solo quattro volte a Roubaix, nelle classiche fatichiamo. Perché? «Non so, non mi occupo di organizzazione del ciclismo. Non abbiamo nemmeno una squadra, dai...»


Ultimo aggiornamento: Lunedì 8 Aprile 2024, 13:00
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