Daria Bignardi: «Ogni carcere è un’isola: l’ho imparato lì dentro»

La giornalista firma un reportage sulle galere italiane, avendole visitate a lungo: il problema non sono le mele marce È l’intero sistema che è guasto, anche gli agenti di custodia sono vittime di un meccanismo trascurato e disperato

Bignardi: «Ogni carcere è un’isola: l’ho imparato lì dentro»

di Francesco Mannoni

Il nuovo libro di Daria Bignardi, Ogni prigione è un’isola è un’opera con più anime. È un reportage sui problemi delle carceri italiane e dei carcerati; è un labirinto di storie amare attinte dalle voci dei detenuti; è il racconto di un’umanità dolente fatta di ladri, rapinatori, povericristi, immigrati e tossicodipendenti (che costituiscono i due terzi della popolazione detenuta), mafiosi e camorristi, ma anche idealisti e rivoluzionari, terroristi rossi e neri; un coro di voci tragiche, dissenzienti, un quadro dai colori foschi, un magma ribollente che rende la questione carceraria sempre più esplosiva.

La giornalista ha «bazzicato» le prigioni per anni. «Da ragazzina», scrive, «mi appassionavo al Conte di Montecristo o a Le mie prigioni, e a vent’anni ho cominciato a scrivere lunghe lettere a un condannato a morte statunitense»; in carcere conobbe il futuro suocero Adriano Sofri e per il carcere operò al meglio delle sue possibilità anche se – precisa - ora «non provo più nessuna fascinazione per le galere». Per scrivere questo libro di memorie e riflessioni, si è «rinchiusa» a sua volta in una piccola isola, Linosa, una delle tre Pelagie: «piccola, verde, nera, persa nel mare blu tra Africa e Sicilia», per immergersi nel passato e rievocare un volontariato compiuto dentro le carceri, soprattutto a San Vittore di Milano.

Sperava di poter migliorare la vita dei detenuti, Bignardi?

«Non ho questa presunzione, mi limito a raccontare quello che ho visto: come ho scritto nel libro, in prigione c’è la vita com’è, fatta di dolore, ingiustizia, povertà amore, malattia, morte, amicizia, rimpianto di una felicità e desiderio di libertà».

La galera come specchio della società?

«Che il carcere sia lo specchio della società lo dicono detenuti, agenti, direttori, educatori, magistrati, chiunque in carcere ci lavori e ci viva. È anche una scuola di crimine, nella maggior parte dei casi. In tanti raccontano di esserci entrati da ragazzi, magari per un pezzo di hashish o un reato minore, ed essere usciti pronti per una vera carriera criminale».

Il numero dei suicidi in reclusione si fa ogni anno più pesante.

«Sì.

E ci parla di un disagio insopportabile, di persone malate, tossicodipendenti, con problemi psichiatrici, che in carcere non ci dovrebbero stare».

La detenzione può essere davvero sentita come una «vendetta sociale»?

«Di fatto lo è. È il sistema carcere che è guasto, non le singole “mele marce” come sentiamo dire ogni tanto».

Non si è mai saputo come sono morti i 13 detenuti durante le rivolte nelle prigioni italiane nel 2020, fra cui Salvatore Piscitelli di Acerra.

«Ufficialmente sono morti di overdose. Due procedimenti d’inchiesta sono stati archiviati: ora c’è un ricorso in atto alla Corte europea dei diritti dell’uomo».

Cucchi, Aldrovandi, i pestaggi a Santa Maria Capua Vetere... Questi metodi inaccettabili sono una regola o un’eccezione?

«Credo che anche gli agenti siano vittime di un sistema trascurato e disperato».

Il carcere è davvero inutile come dice Luigi Pagano da Cesa (Caserta), per quarant’anni direttore di varie carceri italiane, da Pianosa alla Sardegna, fino a San Vittore?

«Che il carcere così com’è sia inutile lo dicono i dati delle recidive, che sono circa il 70 per cento. Nelle rare realtà dove le persone ristrette possono imparare un lavoro qualificato la recidiva crolla al 20 per cento».

Il 41 bis: isolare gli elementi ritenuti pericolosi serve davvero o è una delle tante crudeltà carcerarie?

«Molti agenti mi hanno detto che il 41bis è inutile perché “tanto i detenuti possono parlare con l’avvocato”. Altri che è anacronistico. Altri ancora pensano sia servito a far collaborare certi imputati».

Perché il carcere è un’isola?

«La definizione è di un ispettore di un carcere del Nord. Voleva dire che ogni istituto è diverso dall’altro, un mondo a sé, e che tutto in un carcere dipende dalla direzione e dal rapporto della direzione col comandante degli agenti. Ma anche dal territorio. Le carceri dove i detenuti sono più lontani dalle loro famiglie, o totalmente abbandonati perché stranieri, sono le più tristi».


Ultimo aggiornamento: Giovedì 18 Aprile 2024, 15:29
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